domenica 15 luglio 2012

L'ORTO DEI FRUTTI DIMENTICATI (Quotidiano Libertà, 15/07/2012)

Per la serie "I racconti estivi dei Volatori rapidi", pubblicata anche quest'anno dal quotidiano Libertà di Piacenza, eccovi il mio...
L'ho scritto di getto dopo una gita a Pennabilli, incantevole borgo romagnolo e ultima residenza di Tonino Guerra, indimenticabile sceneggiatore e poeta recentemente scomparso a cui, idealmente, dedico questa mia storia.
E grazie anche alla mia grande amica Emanuela Gravina, che mi ha condotto in questo meraviglioso luogo dell'anima.


L'ORTO DEI FRUTTI DIMENTICATI  di Giusy Cafari Panico















Sotto il torrido sole di luglio, il borgo medioevale che dominava le verdi alture a cavallo tra Romagna e Marche appariva a chi vi sostava come una visione fiabesca.
Un uomo in giacca e cravatta si affannava tra le stradine sassose, che si arrampicavano silenziosamente tra le case di pietra, alla ricerca di un po’ di ombra e frescura.
«Ma dove caspita sarà il ristorante?» sbuffava, allentandosi la cravatta.
Era capitato a Rimini per un convegno di consulenti economici e ora, finita la kermesse, lo avevano invitato a pranzo in quello strano paese.
Come si chiamava? Ah, sì: Pennabilli! Ma che razza di nome: forse i romagnoli l’avevano inventato apposta, tipo Mirabilandia. Il solito modo per far soldi.
Non si era ancora visto nessuno. «Tutti goderecci, qui: si saranno fermati in spiaggia.»
Lui invece si sentiva un cretino: sempre l’unico a rispettare orari e scadenze.
Mentre camminava, s’imbatté in una ragazzina con un piercing al naso che spiegava a un gruppo di turisti russi: «Pennabilli è stata l’ultima residenza di un poeta appena scomparso, che vi ha creato veri e propri musei a cielo aperto, chiamati luoghi dell’anima. Ora visiteremo la cappella dell’angelo con i baffi, più tardi entreremo nell’orto dei frutti dimenticati, tra piante antiche e…»
«Ecco, lo sapevo: è un parco giochi! Però tra le piante almeno ci sarà un po’ d’ombra!» bofonchiò Orlando, che continuava a sentire un gran caldo, nonostante avesse allentato il nodo della cravatta aziendale.
Seguendo un percorso di frecce decorate entrò nel piccolo parco da un curioso portone. Un soave cinguettìo invitava alla quiete.
«Ti richiamo» sussurrò Orlando al collega che l’aveva chiamato sul cellulare anche durante la pausa pranzo.
«Sttt!»
«Ma chi è che dice “Sttt”?» Orlando si girò verso l’ingresso del giardino e non vide nessuno. Forse qualcuno voleva fargli uno scherzo. «Piantatela!»
Il suo grido fece volare in cielo tre o quattro uccellini che si erano appoggiati su un arco azzurro.
«Ma tas! Stai zitto!»
La voce gli era familiare: inflessione piacentina, marcata, la erre un po’ difettosa, il tono sempre al limite dell’isteria. Gli tornò l’eco due, tre volte: «Zitto zitto zittooo» fino a che non ebbe dubbi: era la sua voce.
Rimase come paralizzato: la sua mente sembrava sfuggire ad ogni controllo e non c’era abituato.
La voce lo invitò a togliersi le scarpe.
I fili d’erba accarezzavano i piedi curati che Helga, la sua estetista, gli massaggiava ogni settimana.
All’improvviso le porte del cancello d’ingresso cominciarono ad avvicinarsi l’una all’altra e Orlando si mise a correre a perdifiato per paura di rimanere chiuso all’interno del parco. Non era abituato a correre scalzo, senza le sue Nike da jogging, e inciampava continuamente.
Con un cigolio musicale, quasi un Doremi, le due estremità della porta si serrarono.
Orlando si sedette a terra e cercò il suo I-phone, senza perdere la calma.
In un batter d’occhio sarebbe uscito da lì. Dalla sua banca in due minuti aveva fatto crollare un titolo in borsa, figuriamoci ora!
Niente campo. Anzi sullo sfondo mobile del palmare danzava beffarda la parola Sttt!
La curiosità lo spinse ad alzarsi e a camminare con cautela.
Attraversò l’arco azzurro e si perse in uno strano labirinto di pietra dove strisciava lenta una lumaca di bronzo. Trasalì spaventato, ma poi un ricordo dolcissimo salì dalla sua anima.
Sua nonna, quando andava a trovarla in campagna, gli dava il compito di raccogliere l’insalata. Era meraviglioso per un bambino di città toccare una lattuga fresca, dalle foglie tenerissime: sradicarla era insieme un peccato e un piacere carnale. La nonna la metteva nel lavandino per lavarla. «C’è rimasta una lumachina: non ucciderla!», lo redarguiva, «Rimettila nel giardino!» Orlando allora sceglieva un filo d’erba molto spesso e ve la appoggiava delicatamente.
«Non sarò mai più così felice…» rifletté, mentre un soffio di vento lo spingeva verso una pianta di uva spina. Ne respirò il profumo, inebriato. «Quanto mi piaceva la tua marmellata, mamma! Ti ricordi le merende al pomeriggio, dopo aver giocato a calcio?»
Lui era un calciatore scarso, un terzino che faceva solo falli, ma sua madre lo accoglieva come se fosse stato Rivera. «Quanti goal?» gli chiedeva «Quindici!» mentiva Orlando. E la mamma, sorridendo, apriva il barattolo e spalmava la marmellata di uva spina sul pane fatto in casa.
«Ma che fai piangi?» La voce lo rimproverava ora. Ma non era la sua. Era quella di una farfalla che gli svolazzava attorno. Aveva una voce femminile, dolcissima. Proprio quella della sua mamma. «I maschietti non piangono. E poi sei un bambino e i bambini devono essere felici!»
Glielo diceva con lo sguardo anche ora, quando andava a trovarla all’ospizio. Ma era come se la sua anima se ne fosse andata, da quando si era ammalata di quella brutta malattia dal nome tedesco, quella che mangia i ricordi. La farfalla si posò sui suoi capelli e volò via.
Che ore erano? Si scoprì il braccio e vide, al posto del suo rolex, quel vecchissimo orologio di plastica che il suo compagno di banco, Riccardo, aveva trovato nell’Almanacco Topolino.
Come si erano divertiti in colonia nel settantacinque! Facevano le prove per vedere se quell’arnese era subacqueo e andavano sul fondo, per controllarne la resistenza, fino a diventare cianotici. Riccardo... chissà che fine aveva fatto. Lui era andato al liceo e l’amico alle professionali. Strano come l’infanzia sia democratica: è piu tardi che cominciano le divisioni e le gerarchie. “Mica colpa mia” si disse. Ma era poco convinto.
«Ci siamo incontrati per strada e non mi hai salutato. Lo so che ti sei laureato e hai fatto i soldi. Ma almeno una stretta di mano me la potevi dare», ticchettò amaramente l’orologio.
«Ma che ore sono veramente?» si chiedeva Orlando, confuso.
«Cosa ti interessa? L’unico tempo che vale è quello dell’amore» gli risposero due colombi innamorati, al centro di una meridiana.
Uno si levò in volo e gli porse una bellissima rosa blu, che comincio a parlare: «Non avevi mai tempo per me e mi hai lasciato. Mi hai lasciato con questa: come se una rosa potesse ripagare tutto l’amore che ti avevo dato!». «Angelica! Non volevo, non ero pronto. Pensavo mi volessi soffocare.»
Il fiore proseguì: «Ero un ostacolo al tuo lavoro. O forse per te ero troppo poco. E tutti i tuoi amici? Ricordi? Dicevano che ti avevo fatto perdere il senno!»
 La rosa cominciò a sfogliarsi fino a perdere tutti i petali. «Mi hai fatto sfiorire perché mi hai dimenticata. Lo sai che dimenticare vuol dire uccidere. Lo sai?»
La voce tacque, mentre Orlando, rimasto con il solo gambo in mano, urlava un disperato «Nooo!» al cielo. “Sttt!!”
 «Basta, vi prego! Fatemi uscire da questo posto!» Orlando era arrivato nel suo giro davanti a una porta di una chiesa.
Don Don Don!” La porta suonava come una campana. Avvicinandosi, si accorse che era composta da detriti di tanti portoni di chiese, tutte quelle in cui era entrato. Ne riconobbe una: quella dove si era tenuto il funerale di suo padre, che gli apparve con il suo loden grigio e i suoi occhialini tondi. «Non mi deludere», gli diceva sempre, con il suo accento di meridionale trapiantato al Nord. Glielo ripeté anche ora
Non fece in tempo a rispondere che un forte acquazzone si abbatté sul giardino. Una tempesta d’acqua, scrosciante come una cascata, lo infradiciò fino al midollo. L’acqua gli bagnava gli occhi, gli colava dai radi capelli, scivolava tiepida sui suoi abiti eleganti, gli riempiva persino la bocca aperta per lo stupore.
La inghiottì senza volere. Sapeva di sale. Erano lacrime. Tutte quelle che non aveva mai versato.
La scarica scenografica di un lampo si trasformò in un tuono e gli rintronò dentro, paralizzandolo. Ma fu questione di un attimo e poi il cuore riprese a battere più forte di prima, come un tamburo. Più forte, più ritmato, più libero.
L’I-phone intanto annegava nella pioggia, mentre, in un angolo, una piccola bottiglia, tintinnando, si riempiva.
Dentro una pozzanghera, intanto, galleggiavano i braccioli da bambino, che suo padre gli infilava già da sotto l’ombrellone, quelli arancioni sì, proprio quelli. E poi vi si rovesciarono i tortellini della nonna, i pannolini che gli lavava sua madre, le ginocchia sbucciate…già che bello sbucciarsi le ginocchia! Ci finirono tutte le lettere conservate nei cassetti e i libri che non aveva più letto, e le figurine che aveva buttato via senza nemmeno riguardarle. Ci precipitò anche lui fino a che l’acqua gli arrivò al naso, ma Orlando, assetato di ricordi, non se ne accorse nemmeno.
L’arco azzurro diventò un arcobaleno e Orlando si ritrovò, asciutto, davanti al cancello.
Fu lì che un custode lo vide, all’ora di chiusura.
Assonnato, con l’aria distratta, Orlando teneva in mano un’ampolla.
«L’ho trovata dentro il giardino» e la mostrò all’uomo: un anziano con due baffi molto folti.
«Se vuole, se la può tenere come ricordo» gli sorrise il suo interlocutore «Anzi, aspetti…» e vi attaccò un’etichetta con scritto “Orlando”.
Il turista lo guardò trasognato e si allontanò con passi lenti, con l’impressione di aver ricevuto un regalo molto più importante di un banale souvenir.

«Ecco un altro che ha ritrovato il senno. E tutti i ricordi!» commentò l’angelo, che stranamente portava i baffi, all’amico poeta, sbucato da una porticina nascosta dalle mura del giardino.
L’uomo sorrise, si rimboccò le maniche, e porse all’insolito custode un’altra ampolla.
«Dio Bono! Qui non si riposa mai!» si lamentò bonariamente.
 «Par fòrza, la gente oggi si dimentica di tutto!»
«Crede di dimenticare… in realtà deve solo raccogliere quello che ha seminato.»
«Ne sai una piu del diavolo… cioè dell’angelo, caro il mio Tonino!» esclamò l’angelo con i baffi.
«Di te sicuramente: ti ho inventato io!» sorrise il poeta.
«Sorbole!! E secondo te da dove ti è venuta l’ispirazione?» brontolò l’Angelo, scuotendo le ali.
 «Va là dai…dat ‘na mòsa!»
E continuarono a bisticciare in dialetto romagnolo, mentre lavoravano nell’orto dei frutti dimenticati, vangando e disseminando nel giardino tutti i ricordi per il prossimo visitatore.

                                                                                                                              FINE

2 commenti:

  1. grazie a te cara giusy! quando verrai ancora a trovarmi torneremo a Pennabilli! un abbraccione!
    emy

    RispondiElimina
  2. O.K. ...ISSIMO
    (Superlativo del medesimo: l'O.K. No?!)

    RispondiElimina